La scuola nell'articolo di Franco Lorenzoni Sole24ore

Leggo un bell'articolo di Franco Lorenzoni sull'inserto culturale del Sole24ore di domenica (l'articolo) che, insieme a molti stimoli condivisibili, riporta due fraintendimenti di fondo. Il primo qui: "Provando ad entrare nel merito ci renderemmo conto che nelle scuole reali del Paese – specie in quelle delle periferie che Renzo Piano invita a rammendare – siamo ancora molto lontani dal riuscire a fornire ai ragazzi strumenti, contesti e opportunità per costruirsi le conoscenze e competenze necessarie che diano le possibilità di affrontare le questioni cruciali che urgono. Per tentare di sciogliere tali nodi, infatti, dobbiamo bandire ogni semplificazione e abituarci a un corpo a corpo con la complessità, che può nascere solo in una scuola attiva, con docenti fortemente motivati, capaci di mettere al centro la discussione ed il confronto tra le argomentazioni”
Qui sembra emergere l'idea che compito della scuola sia fornire le conoscenze, gli strumenti, le competenze per decodificare la complessità del mondo. In linea generale non si può non essere d'accordo, ma piacerebbe sapere, con una qualche precisione, quali siano queste conoscenze, strumenti e competenze? Proprio la complessità a cui Lorenzoni richiama rende la loro identificazione problematica e vedremo più avanti quanto problematica sia. La seconda idea è che la scuola reale non sia attiva ed il corpo docente demotivato e capace solo di semplificazioni, attaccato al programma, incapace di stimolare discussioni e confronto tra ergomentazioni. Qui per la verità un minimo di esattezza della descrizione c'è, come potrebbe essere diverso visto il trattamento che la scuola subisce giornalmente? Però non so a che scuola si riferisca Lorenzoni, che è un collega, perché io questa scuola passiva e centrata su spiegazioni ed interrogazioni non la vedo o meglio vedo spiegazioni che cercano di superare la “melassa” televisiva e l'”eccesso informativo” per provare a chiarire pochi, ma decisivi punti e le interrogazioni sono il tentativo, spesso esasperante ed inane, di convincere gli alunni che argomentare non è partecipare ad una discussione tra “Uomini e donne”. Un insegnante per quanto demotivato, e ne ha mille ragioni e tanto più è appassionato, tanto più ha motivo di essere demotivato, quando entra in classe fa esattamente quello che Lorenzoni chiede di fare e non potrebbe essere diverso in una scuola che opera in una società in cui la parola autorevole ha perso ogni significato. Il povero docente, se vuole sopravvivere, deve provare a convincere i suoi alunni che la sua vita ed anche la loro ha un senso, anche se tutto cospira a dimostrare che così non è. Mi sembra Lorenzoni e molti altri con lui dimentichino che fare scuola significa innanzitutto instaurare un rapporto umano tra un adulto ed un adolescente. In definitiva la scuola è l'incontro tra il mondo adulto ed i giovani, un incontro problematico, dialettico, anche conflittuale, ma comunque un incontro. Il compito della scuola non è dare risposte ai problemi della complessità e nemmeno fornire gli “strumenti”, ma quali?, più modestamente è il luogo della trasmissione dell'esperienza umana del passato a chi affronterà il futuro. Raccontiamo una storia di successi e sconfitte a chi dovrà affrontare altre e diverse “battaglie”, poi siamo in “ascolto” di bisogni mutevoli per i quali non abbiamo risposte, possiamo solo provare ad impostare le domande giuste. Credo al fondo del fraintendimento ci sia l'idea che la scuola debba fornire un “prodotto finito”, l'uomo ed il cittadino capace di rispondere a domande ancora inespresse. L'idea è pericolosa perché foriera di totalitarismo e di reintrodurre quelle semplificazioni che Lorenzoni teme. Lorenzoni stesso semplifica nel secondo fraintendimento: “Siamo tutti convinti che, per guardare con intelligenza critica il presente, sia necessario un rapporto vivo con la storia. Che, anzi, sia proprio nella capacità di porsi domande considerando lo spessore del tempo che sta il senso più autentico del valore umanistico, da preservare negli studi. Ma allora, possiamo pensare di avere qualche strumento per interpretare cosa accade nel mondo senza informazioni e conoscenze puntuali riguardo ai complessi processi di decolonizzazione dell'Asia e dell'Africa? Senza consocere il ruolo e la vita di personaggi come Mandela o Gandhi?2 Senza sapere nulla del genocidio del Ruanda o delle guerre che hanno insanguinato l'ex Jugoslavia, dove i ragazzi che abitavano a Sarjevo- una città del tutto simile alle nostre- sono arrivati a spararsi tra compagni dis cuola che si frequentavano fino al giorno prima”
Insomma sembra apparire sia un fraintendimento di ciò che è storia, sia la ricerca di risposte alla guerra di Jugoslavia “rassicuranti”: “non ci si spara tra compagni, guardate a cosa conduce il nazionalismo e gli scontri religiosi”. Poi naturalmente Mandela e Gandhi, il Novecento che ritorna. Chi così pensa ignora che “ogni storia è storia contemporanea” e che per la guerra nella ex-Jugoslavia è più importante conoscere l'espansione ottomana e la Guerra dei Trenta Anni, piuttosto che il maresciallo Tito o Milosevic. Lo storico più attuale, impegnato corpo a corpo con il tema della crisi della democrazia e sull'avvento di forze populiste e demagogiche che conosco è Luciano Canfora, ma se ne occupa a partire dalla guerra del Peloponneso. Il primo "derivato" della storia sono i frantoi di Talete. La prima bolla speculativa quella dei tulipani in Olanda. La prima finanziarizzazione dell'economia e crisi del debito nella Francia del Law. Non voglio dire che non si debba parlare della Jugoslavia o di Mandela, bensì che lo si può fare e meglio, occupandosi del '600. L'ossessione del presente può preludere, ma non è né la lettera né lo spirito dell'articolo di Lorenzoni, ad un insegnamento della storia come “precetti morali”, consolanti “storie edificanti” o terrificanti "racconti dell'orrore”. Una storia così è abbastanza orwelliana. I nostri alunni dovranno costruirsi gli strumenti, le competenze e le conoscenze da se, come abbiamo fatto, bene o male, noi. La scuola e gli insegnanti dovranno trasmettere la loro esperienza con le discipline che insegnano, cercheranno di trasmettere l'interesse che li ha condotti al loro studio ed il profitto che ne hanno tratto per la loro vita.
La complessità ed il modo di affrontarla è nella parole di un poeta che ha vissuto tempi tragici:
“Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.”

Commenti

P { margin-bottom: 0.21cm; }

Concordo ampiamente con Rosario Paone. Allo stesso tempo concordo con Lorenzoni quando afferma che «dobbiamo bandire ogni semplificazione e abituarci a un corpo a corpo con la complessità», ma proprio con questa esigenza, così chiaramente espressa, si entrerebbe in stridente contraddizione se pensassimo di poter fornire, già fatti, gli strumenti per comprendere e aggredire la complessità.
Come ben avverte Edgar Morin, “complesso” non è sinonimo di “complicato” ma qualcosa che si configura come una realtà altra e nuova rispetto agli elementi stessi che la costituiscono, non riducibile ad essi, non comprensibile né dominabile semplicemente e deterministicamente sulla base di essi. Richiede piuttosto un continuo e crescente riadattamento di sistemi concettuali, una disponibilità incessante a ridefinire e riallocare le prospettive con cui si guarda un mondo mutevole e in continua evoluzione. Un corpo sociale, che sia tribù, nazione, etnia o l'umanità intera, non può essere guardata come una struttura meccanica, le cui parti interagiscono deterministicamente secondo leggi e modalità costanti e determinate. Essa è piuttosto come un organismo vivente che nasce, si evolve in un arco temporale fino alla morte, conservando ben poco delle sue strutture iniziali: cosa in me “vecchio” si conserva del bambino o del giovane che fui, o ancora dell'embrione da cui presi origine. Eppure dico e affermo di essere mé stesso, un individuo determinato ed unico fin da concepimento. Ed allo stesso tempo, anzi proprio per questo, inconoscibile se non come processo. Ciò, io credo, è valido per la storia del mondo, così come per ogni realtà complessa.
Nulla è dato comprendere di una realtà complessa se non attraverso la sua storia, né possiamo meccanicisticamente determinarne il futuro.
Se così è, come io credo, allora è vano cercare strumenti, criteri, regole, definizioni che abbiano validità assoluta e definitiva. Come preparare allora i giovani ad affrontare la complessità del mondo?
Nel mondo contemporaneo non sono certo le informazioni a mancare, anzi ognuno può disporne in una quantità tale da esserne disorientato e frastornato. Una massa di informazioni di per sé incomprensibili e inutilizzabili fino a che non si apprende come sistemarle in un sistema concettuale e organico che le renda significanti. Un sistema che, per altro non è né definitivo, né stabile né univoco. A poco servono le “regole”, i “criteri” e le “definizioni”. Come a nulla servono, anzi sono deleteri, i test e i parametri che ne vorrebbero misurare il grado di acquisizione. L'unica via percorribile è l'addestramento sul campo, sia pure nelle singole discipline. Tutte, nessuna esclusa: dalla matematica alla storia, dalle scienze della natura, alla filosofia e alla storia dell'arte. Non, ovviamente, come vasi separati e incomunicabili, ma con le proprie specificità e le proprie interrelazioni.
Ma per assolvere un compito così arduo e impegnativo, anche gli insegnanti devono essere addestrati: la motivazione individuale è necessaria ma non basta. A ciò dovevano servire le SIS, anche se la loro realizzazione concreta si è dimostrata non sempre all'altezza. Esse andavano dunque riviste e se ne doveva promuovere la crescita, anche attraverso la ricerca didattica e pedagogica, non soppresse com'è invece avvenuto. Tanto più che, in larga misura, le SIS erano in grado di autofinanziarsi con le rette dei propri allievi. Sospetto che la loro soppressione avesse come unico obiettivo di spostare i momenti di formazione dal pubblico al privato.

Io credo che il mondo sia stato sempre complesso e che lo strumento, antropologico se vuoi, per affrontare la complessità sia stato la trasmissione del sapere "consolidato" dal maestro all'allievo, se vuoi dall'adulto al giovane. Un rapporto conflittuale e dialettico, sempre anche ai tempi del "vaso vuoto", che produce crescita. I "saperi consolidati" sono costituiti da metodi e lnguaggi, hanno un proprio statuto epistemologico e quest'ultimi dovrebbero essere trasmessi, anche in forma semplificata, ma non "ridotta", per permettere al giovane di sistemare ciò che apprende costruendosi un "percorso di vita". Insomma io non so e non posso sapere se ciò che insegno sarà "utile" ai miei studenti, saranno loro che ne faranno ciò che vogliono. Non sono molto d'accordo con te sulle SIS, in gran parte erano anni persi dietro a teorie psico-pedagogico-didattiche eche invecchiavano nello spazio di un mattino, spesso raffazzonate ed approssimative. Se si volesse veramente badare alla formazione di un insegnante credo il centro sia la conoscenza di quello che ho chiamato "lo statuto episetmico" della disciplina. L'idea che ci sia chi conosce la sua materia, ma non sa insegnarla è sbagliata, così come il rorollario che sia possibile insegnare ad insegnare. Se nulla so cosa posso insegnare? Ciò che so cioè nulla. Se viceversa ho dedicato lunghi anni e riflessioni ad apprendere una disciplina, la passione per la materia e la conoscenza dei suoi aspetti trasparirà in tutte le mie parole. Ciò non garantisce che i miei alunni l'apprendano, sull'apprendiemento giocano fattori motivazionali, socio-economici, ambientali sui quali la scuola può intervenire, ma sarebbero messi nelle condizioni di un apprendimento possibile. Poi in gioco c'è quello che chiamo "piacere pedagogico", insegnare ti deve piacere, deve essere stato una scelta, per alcuni di noi non è così, alcuni avrebbero preferito fare altro e la scuola è stato un ripiego, alcuni avevano questo "piacere" e gli è stato tolto, ma molti, più di quanto non si pensi, lo ritrovano in classe.