QUELLE QUATTRO COSE CHE PENSO DI SAPERE QUANDO SI PARLA DI SCUOLA

DUE DOVEROSE PREMESSE

Quando si parla di scuola occorre partire da due premesse da cui scaturisce tutto il resto.

LA PRIMA: la scuola non è “neutra”, un modello di scuola prevede un modello di società.

Ancor prima di ogni discussione occorre ricordare che la scuola è il luogo in cui le vecchie generazioni preparano le nuove per il loro ingresso in società. Da ciò discende che l’organizzazione scolastica è funzionale, dalla governance ai programmi sino alle metodologie, ad un modello di società futura. Perciò la scuola è argomento politico per eccellenza. Nella I Repubblica si era soliti dire che i governi cadevano sulla scuola ed era vero.

LA SECONDA: la cultura della scuola è sempre una generazione indietro

Proprio perché la scuola è il luogo in cui le vecchie generazioni preparano le nuove, la cultura della scuola è sempre la cultura delle vecchie generazioni. Ogni riforma agisce su una struttura, materiale ed immateriale, che risale alla generazione precedente. Per semplificare io “imito” i miei insegnanti che a loro volta “imitavano” i loro. Certo sono uomo del mio tempo, partecipo al dibattito dell’oggi, ma mi sono formato ieri. Tenerne conto è importante perché questo carattere conservatore della scuola è insito nella cosa stessa e difficilmente eliminabile. Peraltro questo carattere ha un aspetto positivo: le riforme improvvisate si scontrano con lo spirito di adattamento delle prassi ed il loro carattere eversivo si attenua, mantenendo un rapporto dialettico con l’acquisito. Naturalmente vi è un aspetto negativo: culturalmente siamo al periodo precedente.

Queste premesse vanno tenute sempre presenti. Senza di esse il resto del discorso è nullo.

Dalla prima premessa discende che ogni modello di scuola è paradigmatico di un modello di società. Semplificando, per non appesantire il discorso, mi sembra di poter periodizzare quattro momenti che corrispondono a quattro paradigmi:

1) Il paradigma gentiliano (1923-1943);

2) Il paradigma della repubblica (1943-1962);

3) Il paradigma delle riforme (1962-1989);

4) Il paradigma della società di mercato (1989-2017).

Questa periodizzazione, come ogni altra, è arbitraria ed obbedisce più a motivi logici che cronologici, visto che i paradigmi, come vedremo persistono, come è normale data la seconda premessa.

 

IL PARADIGMA GENTILIANO

In realtà storicamente il nome è falsificante visto che questo paradigma deve più a Bottai che al povero Gentile, ma siccome il filosofo è più noto attribuisco a lui il “paradigma”, scusandomi perché il suo era assai più raffinato.

Il modello è una società statica e gerarchica. Una società organica, nel senso del vecchio apologo di Menenio Agrippa, che obbedisse al “cuique suum”, a ciascuno il suo. La società ha bisogno di una classe dirigente di “pensatori” (la mente), di tecnici (il cervello), di lavoratori (le braccia) compito della scuola era assicurarsi che ciascuno trovasse il suo posto nella società secondo i suoi meriti, in questo senso centrale era la “selezione” non come punizione, ma come semplice riconoscimento delle qualità di ognuno. Il “pensatore” era filosofo e giurista, il tecnico ingegnere o geometra, il lavoratore operaio o contadino. Da osservare che la “selezione” era statale, il selezionatore era il docente. Il modello funzionava sin tanto che non si scontrò con società più evolute industrialmente le cui masse erano mediamente più istruite, anche se le élite della società fascista avevano i loro successi, anche perché data la seconda premessa i docenti fascisti erano culturalmente “umbertini”, figli degli Spaventa e del vecchio “positivismo” tardo ottocentesco.

IL PARADIGMA DELLA REPUBBLICA

La società fascista andò a pezzi con la Seconda Guerra Mondiale. L’impari conflitto di una società proto industriale contro società industriale ci costò la distruzione di un paese, nulla valserò gli eroismi dei nostri soldati e della popolazione civile né gli enormi sacrifici. Tedeschi, americani, inglesi entrarono in guerra con modelli sociali ed economici assai più complessi.

A far saltare il “paradigma gentiliano” due fatti: l’industrializzazione di massa e la democrazia. Il dibattito sul modello di scuola era stato ampio, alto ed articolato già in Assemblea Costituente, ancora oggi si leggono gli articoli di Calamandrei. La scuola della repubblica doveva preparare alla democrazia. In realtà nulla cambiò, anche se la discussione era accesa. La seconda premessa fece si che se gli studenti degli anni ‘30 avevano i docenti del ‘10, quelli degli anni ‘50 avevano quelli del 1930. Inoltre la Resistenza e la Repubblica erano state volute da minoranze e la vittoria della Repubblica era stata un successo di quelle minoranze, ma anche dalla guerra persa. Per cui sulla scuola, come nella società, si confrontavano chi voleva un cambiamento graduale e chi vedeva nella scuola lo strumento per attuare l’articolo tre della Costituzione. I cattolici “moderati”, quelli del Concordato per intenderci, che la scuola tenevano stretta ne vedevano sempre lo strumento per consegnare la “tradizione” alle nuove generazioni, i protagonisti della Resistenza, tra cui anche molti cattolici riformatori, lo strumento principe per cambiare la società. Il tira e molla verteva sull’insegnamento della religione cattolica e del “latino”. Questi due elementi erano il cardine di tradizione e “selezione”. L’obiettivo per i democratici fu la scuola media unica, il superamento dell’avviamento professionale. All’interno della discussione si formarono i protagonisti del paradigma precedente che ripresero spunti dal dibattito Gentile-Enriques e dal confronto con Dewey e Montessori per citare alcuni nomi.

IL PARADIGMA DELLE RIFORME

Negli anni ‘60 i difensori della riforma gentiliana furono sconfitti, i due fatti (l’industrializzazione di massa e la democrazia) avevano avuto la meglio. Il centrosinistra portò a casa la scuola media unica. La scuola dell’uguaglianza era raggiunta, ma per effetto della seconda premessa il cambiamento fu di facciata: i gentiliani continuavano a bocciare ed insegnavano come avrebbero dovuto negli anni ‘30. Se si pensa io scherzi, si prenda ad esempio la mia esperienza scolastica: sono nato nel 1959, nel 1969 facevo la quinta elementare con grembiulino e fiocco celeste e nella mia scuola elementare vigevano le punizioni corporali, per fortuna il mio maestro montessoriano le aveva abolite, ma nella classe accanto il maestro fascista ed ex-combattente dava delle “puzziche” (colpire la testa del bambini con le nocche del pugno) terrificanti, alle medie anni ‘70, c’erano le classi separata sezione per maschietti e per femminucce con uscite da scuola separate, i miei professori si erano formati negli anni ‘40. A rompere questo quieto tran tran molti docenti “progressisti” che si organizzavano intorno alla CGIL Scuola o nelle organizzazioni professionali, ma soprattutto un libro: “La lettera ad una professoressa”

Ancora oggi questo libro, del 1967, è urticante, bersaglio di tutti i “gentiliani” ed anche dei “meritocrati”, la differenza non è da poco, la vedremo così come ne vedremo i punti in comune. Cosa aveva di così scandaloso? I “gentiliani” ed i “meritocrati” osservano che la Lettera contesta la “selezione” e perciò “abbassa” la qualità della scuola ed attribusicono al libro la deriva della scuola di massa. Ora questa obiezione è ingegnua al punto da far pensare che i meritocrati siano stupidi ed abbiano problemi di comprensione del testo. In realtà il libro dimostrava non solo che un’altra scuola era possibile, ma che esisteva. Il valore del libro non è nella critica alla scuola “gentiliana”, ma nella potenza del lavoro dei ragazzi che l’hanno scritto, tanto è vero che allora si diceva “non è possibile sia stato scritto da ragazzi di terza media, l’ha scritto Milani”. Un linguaggio asciutto, dati inconfutabili ed una logica stringente dimostravano che c’era la possibilità di costruire una scuola che facesse cultura anziché “trasmetterla”. Il merito di Don Milani è qui: nel successo culturale alto dei suoi studenti. Nella Lettera la cultura diventa critica dell’esistente, capacità di costruire il futuro, di padroneggiare il proprio “destino”. Si dice che la Lettera sia ideologica, ma è esattamente il contrario: la Lettera dimostra che l’ideologia è “falsa coscienza” ed invita a decostruire i discorsi ed ad agire il conflitto. Una vera scuola democratica in cui ognuno, insieme agli altri, si costruisce il sapere. Parallelamente Tullio De Mauro, altro grande bersaglio, operava sulla lingua.

Basta la finisco qui, perché molto ci sarebbe da dire. I due, Don Milani e De Mauro, sono bersagli perché nelle loro pagine ed opere hanno mostrato che una “scuola di massa e di qualità” è possibile, ma è critica. In fondo a pensarci il problema di Socrate: insegnare è corrompere i giovani, sovvertire la tradizione. In fondo a loro, Don Milani e De Mauro, è andata meglio: a Socrate è toccata la cicuta.

Allora la scuola democratica ha vinto? Null’affatto, il secondo paradigma è sempre valido, l’opera di riforma è stata lenta e contraddittoria, i programmi della scuola media unica sono del 1979, e l’ultimo tentativo di riformare la secondaria è nel Progetto Brocca. Ma mentre la Sinistra tenta di trovare il modo di realizzare la scuola di Lorenzo Milani e De Mauro e la destra ripropone la “selezione”, il mondo, la società cambia.

IL PARADIGMA DELLA SOCIETA’ DI MERCATO

Siamo agli anni ‘90 e la scuola è irriformabile, piccoli aggiustamenti, riforme dell’esame di stato, ma il dibattito langue, la grande espansione del welfare e dello stato sociale rifluisce ed anche le speranze di modifica, in senso democratico, della società; emerge un nuovo paradigma. Questo paradigma è presente, seppur con accenti diversi, dalla Riforma Berlinguer che, sia detto tra parentesi liquida il povero Brocca, alla Riforma Renzi che ne costituisce la superfetazione come vedremo. Il caposaldo del paradigma è la complessità. In un mondo complesso e soggetto a rapidi mutamenti nessuno, tanto meno lo Stato, è in condizione di prefigurare il futuro perciò lo Stato identificherà obiettivi generali, sarebbe corretto definirli generici, ogni scuola costruirà i mezzi per raggiungerli, la famosa autonomia, e si verificheranno i risultati, naturalmente chi e come debba verificare sarà oggetto di discussione, ma questo non mette in dubbio il paradigma sia che verifichi lo Stato sia che verifichi OCSE o INVALSI.

Alcune parole d’ordine del paradigma delle riforme ritornano come parodia di una neolingua orwelliana.

Si parte dalla “centralità dello studente” che era il ricoscimento della cultura di classe del singolo e il bisogno di costruzione di cultura critica autonoma e si arriva alla “centralità del consumatore” nella formazione del “capitale umano”. Io società, stato, rinuncio a formare, mi limito ad offrire possibilità che il singolo, studente o famiglia, possono scegliere, poi la “mano invisibile” deciderà i sommersi ed i salvati. Gli esempi di applicazione sono innumerevoli: dai POF alla competizione tra scuole, ai “progettifici”, alcuni francamente irresistibili per comicità. Tutte le cosidette riforme sono riforme della governance nel senso del Panopticon di Bentham, non è necessario parlare di cultura o di programmi basta avere un largo ventaglio di offerta e la domanda s’incontrerà in un equilibrio produttivo.

Oppure la parola “lavoro”, nel paradigma delle riforme indicava la necessità che la scuola costruisse le competenze per operare nella società concreta, un’apertura in cui il mercato del lavoro fosse innervato dai saperi e dalle conoscenze, nel paradigma della società di mercato diviene l’alternanza scuola-lavoro in cui non il sapere costruisce lavoro e critica del lavoro, ma il mercato del lavoro costruisce sapere diventando esso stesso formatore, lo studente è persona che arricchisce il suo “capitale umano”, riempie il suo curriculum, il portfolio come si dice. Si pensava ad una scuola che trasformasse il mercato del lavoro ed abbiamo un mercato del lavoro che trasforma la scuola.

Ed infine la parola chiave “meritocrazia”, con i suoi corollari “mobilità sociale” ed “ascensore sociale”, anche qui un modello di società gerarchica, ma non organica, che affida il compito di valutazione al mercato invece che allo stato. Gentile voleva una società senza conflitto partendo da una visione organicistica, i “meritocrati” vogliono una società senza conflitto partendo dal merito, ambedue i paradigmi sono selettivi: in un caso a partire da tradizione e giudizio statale, nell’altro a partire dal successo economico. Ambedue sono modelli di società gerarchiche: in un caso con paletti e confini prefissati, nell’altro in maniera caotica e regolata dalla “mano invisibile” e dalla “centralità del consumatore”. Non si può non vedere nella Riforma Renzi la supefetazione di questo paradigma, che otterrebbe la sua definitiva vittoria con l’abolizione del valore legale del titolo di studio.

Conclusioni provvisorie.

Dice Matteo Renzi “Siamo riusciti nel capolavoro di avere tutti contro” e Fassino “Gli insegnanti sono stati contro tutte le riforme da qualunque parte proposte”, io credo il loro sconcerto sia reale. Il fatto è che non considerano le premesse: nella scuola si scontrano ancora oggi “gentiliani” e “riformisti”. I riformatori da Berlinguer a Renzi, passando da Moratti e Gelmini hanno operato, in maniera diversa certamente, ma nel “paradigma della società di mercato” (autonomia, competizione, valutazione), ma la cultura della scuola è un passo indietro ovvero un passo avanti. I riformatori odierni non capiscono le obiezioni perché per loro esiste un solo modello di società, quello di mercato, è il TINA (There is no alternative), ma nella scuola le alternative ci sono eccome, hanno nomi nobili: Gentile e Don Milani, sono culture politiche. Si badi che oggi si parla delle due destre, liberiste e globalizzatrici e protezioniste e sovraniste, manca il riferimento alla sinistra riformatrice, quella che pensa che la società ed il mercato debbano e possano essere cambiati, non è un caso che i bersagli siano sempre il ‘68 e Don Milani, “gentiliani” e “neoliberali” possono sempre incontrarsi negli elementi comuni, ma il “paradigma delle riforme” è incompatibile con il TINA.