Sulla meritocrazia quinta parte

Seguiamo ancora Lasch:

Un'ammissione in massa alla classe dei "creativi" rappre­senterebbe, evidentemente, l'ideale di società democratica di Reich, ma visto che I'obiettivo è chiaramente irraggiungibile, la miglior approssimazione possibile, presumibilmente, è rap­presentata da una società composta tutta da "analisti simboli­ci" e dai loro tirapiedi. Questi ultimi saranno forse consumati dal sogno di diventare essi stessi dei divi, ma si accontenteran­no, nel frattempo, di vivere all'ombra di chi lo è già, nell'attesa di essere a loro volta scoperti, e di essere uniti simbioticamen­te ai loro modelli in una ricerca continua di talenti da lanciare sul mercato, una ricerca che si può paragonare soltanto, come l'immagine di Reich evidenzia benissimo, ai riti del corteggia­mento. Si potrebbe aggiungere l'osservazione, forse un poco acida, che i circoli del potere - finanza, governo, arte, intratte­nimento - oggi tendono a sovrapporsi e a diventare reciproca­mente intercambiabili. significativo che Reich si serva di Hollywood come un esempio di quelle Comunità "straordina­riamente reattivi" che si formano là dove si concentrano i cervelli "creativi". Washington diventa una parodia di Tinseltown, la città dei balocchi; gli executives si muovono via etere e dan­no vita, da un momento all'altro, a qualcosa che ha l'apparenza di un movimento politico; i divi del cinema diventano a loro volta santoni politici, e persino presidenti; la realtà e la simulazione della realtà sono sempre più difficili da distinguere. Ross Perot lancia la sua campagna presidenziale dal Larry King Show; i divi di Hollywood hanno una parte preminente nella campagna di Clinton e accorrono in massa alla sua cerimonia d'insediamento, facendola assomigliare a una prima di Hol­lywood. Conduttori e intervistatori televisivi sono essi stessi delle celebrità; le celebrità del mondo dell'intrattenimento as­sumono la funzione di critici sociali. Il pugile Mike Tyson man­da una lettera aperta di tre pagine dalla prigione dell'Indiana dove sta scontando una condanna a sei anni per violenza car­nale, deplorando la "crocifissione" ad opera del presidente della commissione federale per i diritti civili Lani Guiner. E Ro­bert Reich, borsista Rhodes affascinato dai divi, profeta del nuovo mondo di "astrazione, pensiero sistemico, sperimenta­zione e collaborazione" entra nell'amministrazione Clinton con l'incongrua funzione di ministro del lavoro, di amministratore, doc, di un settore di forza lavoro (la "produzione di routine") che, stando alle sue analisi, non ha alcun futuro in una società composta di "analisti astratti" e di "addetti alla persona".

Solo in un mondo in cui le parole e le immagini hanno sempre meno rassomiglianza con le cose che dovrebbero de­scrivere, sarebbe possibile che un uomo come Reich venga considerato, senza ironia, ministro del lavoro o scriva con tanto calore di una società governata dalla componente migliore e brillante. L’ultima volta che "i migliori e i più brillanti" hanno avuto il controllo del paese, lo hanno gettato in una lunga guerra nel Sud-Est asiatico, una guerra che ha minato il nostro morale e da cui non ci siamo ancora pienamente ripre­si. Eppure Reich sembra credere che una nuova generazione di ragazzi prodigio possa fare per la traballante economia americana quello che la generazione di Robert MacNamara non è riuscita a fare sul piano della politica estera: restaurare, con la pura forza dell'intelligenza, quella leadership mondiale che gli Stati Uniti hanno esercitato per breve tempo dopo la seconda guerra mondiale e hanno successivamente perduto, non tanto per stupidità quanto per quell'arroganza - l'"arro­ganza del potere", come la definiva il senatore William Fulbri­ght - cui "i migliori e i più brillanti" sono congenitamente as­suefatti.”