Sulla meritocrazia nona, ed ultima, parte
Schede primarie
Insomma può sorprendere, ma la mia critica alla “meritocrazia”, declinata alla Abravanel, non parte da posizioni di sinistra, ma da posizioni liberali. Oggi è di moda dichiararsi liberali, così come ieri comunisti e questo non fa capire più nulla. Partirei dal dire che condivido l’idea che si possa parlare di “liberalismi”1. Ma elementi comuni sono: “A fondamento dello Stato liberale c’è, più o meno consapevole, ed argomentata in modi differenti, un’etica che ha come valore-guida la libertà: una libertà che non va intesa come semplice diritto individuale da far valere nei confronti dello Stato, ma fa tutt’uno con l’energia creatrice di ogni uomo, è la sua vocazione profonda, e si manifesta, sul piano storico, in un’etica della iniziativa e della responsabilità. La “libertà” dei liberali, a differenza di quella degli utilitaristi, non consiste in una semplice ricerca della felicità e del benessere; si tratta piuttosto di affermare, in ogni circostanza, la propria autonomia morale, perché, come diceva Kant, “nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo (come cioè egli si immagina il benessere degli altri uomini), ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo, in guisa che la sua libertà possa coesistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale (cioè non leda questo diritto degli altri) “.2 Ridurre tutto ciò alla giustificazione dei “differenziali salariali”, alla giustizia come equità ed alla ricchezza è ben diverso. “L’etica liberale insiste, poi, sulla fecondità dell’antagonismo fra gli individui, i gruppi, i ceti e le classi, antagonismo economico non meno che politico e culturale: “la natura umana – diceva John Stuart Mill – non è una macchina da costruire secondo un modello e da regolare perché compia esattamente il lavoro assegnatole, ma un albero, che ha bisogno di crescere e svilupparsi in ogni direzione, secondo le tendenze delle forze interiori che lo rendono una creatura vivente”. Il rifiuto dell’uniformità e del conformismo si lega alla ferma difesa dell’autonomia intellettuale e morale dell’individuo. L’etica liberale rifiuta lo Stato paterno che mortifica gli individui e asservisce la società civile ad una logica di sviluppo imposta dall’alto ed estranea alle sue reali esigenze.”3
Avere un sistema scolastico che predetermini l’appartenenza alla classe dirigente sulla base di standard è esattamente la visione di uno stato “tecnocraticamente” dirigista, tanto più dirigista, e meno liberale, quanto più efficiente. “L’etica liberale non ignora le questioni di giustizia distributiva, ma è evidente che non ci può essere per essa nessun modello assoluto e definitivo di giustizia. Nessun principio generale di giustizia può essere razionalmente dedotto da un’astratta natura umana, né la concreta esperienza storica delle differenti società ci mostra l’esistenza di principi universalmente riconosciuti circa la struttura di una “società giusta“. E quand’anche fosse possibile raggiungere un accordo su questi pretesi principi universali di giustizia distributiva,l’etica liberale ci vieterebbe di imporli agli individui in nome della superiorità dei fini sociali rispetto a quelli liberamente scelti dai singoli (Hayek).Il pensiero e la prassi liberale non possono essere confusi con l’apologia dell’egoismo individualistico, ma neppure possono essere sottomessi ad una concezione autoritaria ed organicistica della “giustizia sociale”. In una società liberale, l’etica della politica non può mai agire in contrasto con il valore fondante della libertà, con l’apriori della libera comunicazione e persuasione in tutte le sfere della vita economica, politica e culturale. I problemi di giustizia si pongono, perciò, in una prospettiva radicalmente diversa da quella del centralismo pianificatore e del populismo giustizialista.” Nemmeno la giustizia “meritocratica” può porsi come “assoluta” ed essere esercitata tramite l’organizzazione dell’istruzione. Se non fosse abbastanza chiaro, “In un saggio del 1947, Ancora di liberalismo, liberismo e statalismo, Croce afferma che “senza la potenza dell’individuo niente accadrebbe e il mondo non sarebbe”, cosicché “fiaccare l’individualità è disegno da stolto e nella misura in cui riesce (nella misura, perché radicalmente non riesce mai), è cosa perniciosa“; d’altra parte, “gli individui sono società, e società importa non già, come si suol dire, oppressione e neppure freno e mortificazione imposta all’individualità, ma necessità che questa attui a pieno se stessa col rispettare e promuovere il complesso vitale a cui appartiene, l’interesse comune, come lo si chiama, e che, se è comune, è anche suo, individuale”. Non esiste un modello unico di vita sociale e l’assurda pretesa di cancellare le “insopprimibili diversità” conduce soltanto alla tirannia di particolari individui o gruppi di individui; tuttavia – avverte ancora il filosofo – non esiste neppure “una sorta di armonia prestabilita”, che tenga assieme le diverse individualità: il liberalismo adotta, di volta in volta, provvedimenti e metodi che, astrattamente considerati, possono essere qualificati come liberistici o statalistici, ma Croce non si è mai sognato di affermare, come qualcuno continua a fargli dire, che l’etica liberale e l’ordine politico liberale possono conciliarsi con un sistema economico dirigista. Quanto all’economia di mercato, pur ritenendola indispensabile per salvaguardare le istituzioni liberali, egli giustamente si rifiuta di trasformarla in criterio assoluto di vita morale, dal momento che l’uomo integrale non si può ridurre alla particolare dimensione del mercato e del consumo.”
“Si provi ad abbattere il carattere razionale–trascendentale della libertà (pur nella varietà delle sue manifestazioni storiche e giuridiche), la si riduca a un qualche determinismo sociobiologico, a preferenza emotiva, a calcolo utilitaristico o a semplice costruzione giuridica, e ci si troverà del tutto indifesi, specialmente nei tempi in cui predominano violenza e menzogna, di fronte alle argomentazioni dei variopinti nemici del liberalismo.”
“Non c’è, in realtà, organizzazione scientifica ed economica4 che possa “eliminare dalla storia il caso, l’accidentale, il fortuito, l’imprevedibile”, che possa, insomma, sottrarre gli uomini ai rischi della libertà. Nella cosiddetta società razionalizzata – ricorda Matteucci, citando Schumpeter – non solo persistono, ma addirittura si rafforzano quegli impulsi irrazionali che erano tenuti precedentemente a freno dalle barriere del costume e della tradizione religiosa. Occorre, dunque, inventare le soluzioni giuridiche “liberali” per la società post-industriale, per cercare di controllare le sue potenzialità distruttive e garantire
meglio le nuove libertà che sono il prodotto di una crescente differenziazione della soggettività. Superando pregiudizi culturali assai radicati, dobbiamo “finalmente prendere coscienza che gli uomini nella società post-industriale sono assai più diversi rispetto a quelli vissuti nella società industriale o in quella pre-industriale”. Questa “diversità” nasce dalla moltiplicazione delle professioni, delle specializzazioni e dei ruoli sociali, che genera, dietro l’apparente uniformità della società di massa, una pluralità di valori, di modelli culturali, di stili di vita. Questa complessa varietà antropologica produce, nei diversi ambiti sociali, differenti aristocrazie meritocratiche, tutte indispensabili al funzionamento di una società come la nostra; il conflitto fra le “aristocrazie”, contrariamente a quello che pensa la retorica populista, giova non solo all’efficienza del sistema ma anche al rafforzamento delle libertà democratiche perché rappresenta “ un contrasto politico e sociale fra i valori ultimi da dare all’esistenza”. Al “popolo” (vale a dire al corpo elettorale) spetterà di scegliere fra le diverse meritocrazie in lotta per l’egemonia politica.
Nella prospettiva liberale, il conflitto genera l’innovazione e stimola la creatività, favorendo una reale e positiva circolazione delle élites; e inoltre tutela la sfera privata da una pseudo-razionalità pubblica che vorrebbe coartarla, garantendo agli individui e ai gruppi i necessari spazi di libertà. Alla società organica e pianificata dei tecnocrati, il liberalismo cerca di contrapporre un nuovo “ primato” della politica, intesa come costruzione di un ordine istituzionale sempre mobile e flessibile, posto al servizio di bisogni umani inevitabilmente conflittuali e mai definitivamente razionalizzabili.”
Spero sia chiaro, le sottolineature sono mie. Non pretendo che la visione di Paolo Bonetti, che condivido, su cosa si debba intendere per liberalismo sia valida universalmente, ma credo che un sincero liberale non possa che entrare in dubbio leggendo Abravanel, a meno che non sia sincero5.
Si può descrivere un approccio alternativo, a quello “meritocratico”, al problema della formazione con quella che Malizia chiama approccio “radicale”6 Ci sembra che i problemi posti da questa concezione siano maggiormente in linea con quello che una “società aperta”, multiculturale e democratica pongono alle società avanzate.
1Paolo Bonetti- L’etica liberale- “A chi scrive paiono del tutto evidenti le molteplici anime del liberalismo pur nel comune richiamo al fondamentale principio della libertà individuale, tanto che, senza voler negare a nessuna una sua legittimità storica e teorica, sarebbe opportuno non solo procedere alle necessarie distinzioni concettuali, ma acquisire ormai la piena consapevolezza che non ha più alcun significato politico la volontà di tenere in vita organizzazioni come l’Internazionale liberale (fra l’altro, una pallida imitazione delle Internazionali socialiste e comuniste) nelle quali confluiscono, in grande confusione, partiti e movimenti politici che perseguono obbiettivi sostanzialmente incompatibili. Vadano i liberali per le differenti strade che lo spirito della libertà ad essi indica, cercando ciascuno i propri alleati non fra coloro che portano lo stesso nome, ma fra quelli che condividono gli stessi programmi. Il liberalismo, più che un’ideologia, dovrebbe essere un insieme di principi etico-politici (la libertà degli individui in ogni settore dell’esistenza, la limitazione e la divisione del potere, il sentimento di responsabilità che non può essere disgiunto da quello dell’autonomia) a cui possono seguire scelte di politica economica e sociale anche notevolmente differenti fra loro, in un duttile pragmatismo che non dovrebbe mai far difetto a chi crede nella creatività di una politica liberale svincolata da ogni dottrinarismo.” L’autore ha insegnato Filosofia morale all’Università di Cassino ed è attualmente docente di Bioetica nella facoltà di Scienze dell’Università di Urbino … Collabora regolarmente alle riviste “Nuova Antologia” e “Critica liberale”. Si può trovare l’articolo che cito qui http://www.fondazione-einaudi.it/Download/040-045.pdf. Si potrebbe fare lo stesso discorso per i concetti di sinistra o di socialdemocrazia (Tony Blair è di “sinistra”?)
2Paolo Bonetti citato
3Ibidem
4E men che mai il modello McKinsey
http://www.analisiaziendale.it/mckinsey_non_siamo_una_lobby_1001278.html
http://www.mckinsey.it/carriera/entra_in_mckinsey/il-processo-di-selezione.view
http://www.mckinsey.com/careers/how_do_i_apply/~/media/Files/mckinsey_problem_solving_test_coaching_guide.ashx
Mi sembra più un sistema alla Scientology che un sistema liberale.
5E’ difficile definire cosa significhi essere oggi liberale, oltre a quali siano le “politiche liberali” visto che esse devono cambiare secondo le esigenze, essendo per definizione antidogmatiche. Non è raro vedere che intellettuali di cultura liberale se le dicano di santa ragione. Da ultimo Riccardo Chiaberge sul “Fatto Quotidiano” di domenica 25 luglio 2010, così risponde ad un articolo di Piero Ostellino sul “Corriere della Sera” (per la verità l’articolo di Ostellino era osceno anche a mio giudizio, ma io sono un “liberale di sinistra”)
“Ricordi, caro Ostellino? Eravamo liberali in anni non sospetti, nel mitico Sessantotto, quando i liberali (anche quelli illuminati) venivano presi a pomodori in faccia, se non peggio. Ci siamo formati entrambi al Centro Einaudi di Torino, sui testi di Isaiah Berlin, di Raymond Aron, di Karl Popper, dì Ralf Dahrendorf. E sai, che ti dico? Dopo tanti anni e tanti voltafaccia non mi sono mai pentito, non rinnego nulla. Come te, resto convinto che la democrazia liberale, per dirla con Churchill, sia il peggiore dei sistemi politici a eccezione di tutti gli altri, e che non abbia alternative al di fuori di qualche forma, più o meno larvata, di tirannide. Niente e nessuno potrebbe convincermi del contrario.
Ma devo confessarti una cosa: se mi viene ogni tanto qualche tentazione di cambiare idea, buttandomi tra le braccia dei pochi bolscevichi superstiti, è proprio leggendo i tuoi articoli. Ieri per esempio, nella tua rubrica sul Corriere, spiegavi ai lettori cocciutamente statalisti che prendersela con i "ricchi evasori" è sintomo di pregiudizio ideologico e di invidia sociale. "Fra le libertà del liberalismo- spiegavi - c'è anche quella di arricchirsi... Una volta che Io Stato abbia provveduto a che sia offerta a tutti l'uguaglianza delle opportunità di farsi valere, saranno capacità e meriti a decretare il successo di ciascuno". Scusa Piero. a questo punto mi domanda se tu ed io abbiamo letto gli stessi libri. Mi sembrava di sì, evidentemente sbagliavo. I grandi teorici del liberalismo, se non ricordo male, ci hanno insegnato che. la libertà economica è un presupposto necessario della democrazia politica, ma non sufficiente. Se è vero che dove manca la libertà di intraprendere nessuno è libero, non è sempre vero il contrario: basti pensare alle tigri asiatiche o alla Russia di Putin, regimi autocratici dove gli imprenditori sono liberi di fare quattrini e di sfruttare gli operai, ma i cittadini non possono protestare e la stampa è imbavagliata. Anche la Cina popolare ha riconosciuto la proprietà privata e il diritto di arricchirsi; ma non direi che si possa definire uno Stato liberaldemocratico. E L'Italia? Secondo te, come si fa a discettare astrattamente di uguaglianza delle opportunità, di libero mercato e di concorrenza in un paese dominato dalle oligarchie, dalle caste e dalle corporazioni protette, dove il presidente del Consiglio è un monopolista prosperato all'ombra del potere politico e grazie alle concessioni governative, e dove una cupola affaristica si spartisce gli appalti delle opere pubbliche senza regole né trasparenza? Un paese che ha il primato europeo dell'evasione fiscale, più di Romania e Bulgaria, e dove i nullatenenti viaggiano in Cayenne? Un paese che in larghe porzioni del suo territorio è controllato dalla criminalità organizzata, in cui per gestire non diciamo un'industria, ma un negozietto, devi pagare il pizzo ai mafiosi? Non è la Svizzera, caro Piero, o l'America delle leggi antitrust e della galera per Madoff. A Dio piacendo, non è neppure la Bielorussia o qualche altro residuo baluardo del socialismo reale. "In Italia - scrivi – il reazionario Bersani, , parla ancora di `'politiche di ridistribuzione '…
Così l’ideale dell’invidioso sociale non è il miglioramento delle condizioni di vita per tutti, ma il peggioramento di quelle di chi guadagna di più". Il Leviatano "livellatore verso il basso" (sic). Ma dove sarebbe, caro Piero, questo mostro hobbesiano?"Tu vivi, buon per te, gran parte dell'anno in un'amena regione della Francia- meridionale, dove l'amministrazione napoleonica ti fa dimenticare le angherie di quello che tu chiami Stato canaglia se facessi un giretto nel nostro Sud, più che ‘a livella (come diceva Totò, riferendosi peraltro all'uguaglianza tombale) vedresti osceni dislivelli di reddito che di meritocratico hanno ben poco. A emergere, da queste. parti, non sono i Bill Gates ma gli Anemoni. E il vero Leviatano è la Piovra che allunga i suoi tentacoli fino alla Milano dell'Expo. Siamo d'accordo: nella Carta dei diritti liberali è inclusa la libertà di arricchirsi. Non però quella di rubare.”
6Malizia, op.cit “La seconda concezione cosiddetta “sociologica” o “radicale” del rapporto eguaglianza-equità/merito è emersa da una considerazione critica dei risultati delle politiche della posizione “liberale” (Besozzi, 2009; Malizia, 1973 e 1991). Essa ritiene che non sia sufficiente garantire a tutti l’accesso alla scuola, ma che sia necessario assicurare l’eguaglianza dei risultati al termine del processo di insegnamento-apprendimento in modo che le possibilità di riuscita nella vita siano distribuite in maniera comparabile tra allievi di gruppi sociali diversi. Inoltre, non bastano scuole eguali per tutti, cioè che le scuole dei poveri abbiano le medesime risorse di quelle dei ricchi, ma si richiedono scuole egualmente efficaci tali cioè da compensare le differenze tra allievi di origine sociale diversa. L’eguaglianza delle possibilità nell’istruzione non significa eguaglianza di trattamento, ma eguale possibilità di essere trattato in maniera diversa per poter realizzare le proprie capacità. La concezione “radicale” attribuisce alla scuola un ruolo più attivo per cui,stando ai suoi sostenitori, la responsabilità dell’insuccesso dell’alunno ricade sul sistema scolastico più che sullo studente e/o la sua famiglia. Al tempo stesso essa respinge il mito illuminista che la scuola possa tutto: la scuola non può da sola risolvere i problemi dell’ineguaglianza, se al tempo stesso non vengono previsti interventi decisi sulle cause dello svantaggio che esistono nella società, al di fuori della scuola. Le principali politiche corrispondenti alla concezione “sociologica” o “radicale” sono soprattutto le seguenti tre: l’istruzione di tipo compensativo per ovviare al ritardo nello sviluppo di cui soffrono i figli delle famiglie povere; la scuola unitaria articolata resa più efficiente mediante l’introduzione di alcune innovazioni; l’educazione alternata o ricorrente, intesa ad assicurare a tutti la possibilità di riprendere la propria formazione in età adulta. Il quadro di riferimento di questi tre tipi di intervento è dato dalla strategia globale dell’educazione permanente, la quale prende le mosse dall’idea di una società integralmente educativa in cui le funzioni dell’insegnare e dell’apprendere non sono più il monopolio di una istituzione, la scuola, di una specifica categoria professionale, gli insegnanti, e di una particolare età, la giovinezza, ma l’educazione viene intesa come un processo che si estende alla vita umana nella sua interezza e in cui interviene tutta la società. A partire dagli anni ’80 si è gradualmente realizzato un allargamento del principio dell’eguaglianza delle opportunità educative, caratterizzato prevalentemente dai tratti della quantità, dell’uniformità e dell’unicità, fino a comprendere gli aspetti della qualità, della differenziazione e della personalizzazione. Pertanto, non basta assicurare l’accesso di tutti all’istruzione e l’eguaglianza dei risultati fra i vari strati sociali, ma è necessario garantire il diritto a un’istruzione di qualità (Besozzi, 2009; Malizia, 1991 e 2008). Nella stessa prospettiva si dovrà anche contemperare unità e diversità, tutela ed eccellenza.”
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